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psicolune

🦄Psicoterapeuta.
🌜Sognatrice lunare appassionata di mare e venti.
🔮psicoterapia in presenza e online

A volte, quando un’emozione ci spaventa, la psic

A volte, quando un’emozione ci spaventa,
la psiche la traveste con un’altra.

La paura diventa rabbia.
La tristezza si maschera di rabbia.
Il dolore, la vergogna, il bisogno si fanno spazio attraverso la rabbia.

Non perché la rabbia sia più semplice.
Ma perché a volte è ciò che rimane.
Quella che arriva quando le altre non possono passare, quella che la psiche usa per resistere.

Da bambini abbiamo imparato che la tristezza era pericolosa.
Che il dolore metteva a disagio.
Che la paura non aveva spazio.

Abbiamo percepito, anche senza parole,
che alcune emozioni erano troppo,
che non c’era posto per la nostra fragilità.

E allora abbiamo smesso di mostrarla.
Abbiamo fatto i grandi, anche quando dentro eravamo piccoli.
Abbiamo stretto i denti, contenuto le lacrime, indurito la pelle.

Ci siamo adultizzati troppo presto.
Non perché lo volevamo,
ma perché non c’era alternativa.

E così la rabbia è diventata un rifugio.
Una corazza. Una voce.

La rabbia non è sbagliata.
Come tutte le emozioni, ha una funzione:
ci protegge, ci segnala un’ingiustizia, un limite superato, ci dice che c’è qualcosa da affermare.

Ma quando è l’unico modo che abbiamo per stare in relazione col mondo,
quando copre tutto il resto,
diventa un’illusione di forza che nasconde la nostra fatica.

Il sottobosco è il posto dove confino ciò che non riconosco. Lì ho nascosto la mia tristezza,le paure che nessuno ha accolto,il desiderio di piangere, di essere protetto, riconosciuto, messo al sicuro.

E quando non posso crollare,
quando non mi è concesso stare male,
la rabbia diventa l’unica espressione possibile.
Una maschera.
Un’emozione per un’altra.

Ma poi, mi accorgo che mentre mi arrabbio mi viene da piangere.

Perché nulla si perde davvero, tutto resta.

La via d’uscita è la vulnerabilità.
Permettersi di sentire.
Di essere piccoli, fragili, umani.
Di non saper fare. Di cadere.

Ti lascio mia rabbia, oggi mi vesto di orgogliosa tristezza.

Mia figlia ha 8 anni. Ultimamente, a scuola, si è

Mia figlia ha 8 anni.
Ultimamente, a scuola, si è sentita messa da parte.
Qualche frase, detta da altri bambini, è arrivata come una piccola ferita.

Lei mi ha detto che era triste e ha pianto tanto. Dentro di me, una voce ha cominciato a pensare:
forse se rispondesse, se fosse più forte, se si difendesse, soffrirebbe meno.

E poi mi sono fermata.

È possibile che sia lei a doversi trasformare?

È possibile che il problema sia proprio la sua purezza,
la sua gentilezza,
la sua capacità di sentire una ferita?

O forse il problema non è dentro, ma fuori nel mondo che è bello con i suoi tramonti e il mare e le altalene e le nuvole che cambiano forma, ma fa anche tanta paura.

Un mondo che ha confuso l’indifferenza con la forza,
la durezza con la maturità,
la freddezza con l’autoprotezione.

Non voglio insegnarle a indurirsi per non sentire.
Voglio insegnarle a restare intera anche quando sente.

A nominare ciò che prova.
A restare accanto a sé stessa.
A non vergognarsi mai del suo cuore aperto.

E la verità è che, a volte, è spaventoso essere donne che hanno figlie.

Perché conosciamo il mondo che le aspetta.
Lo conosciamo troppo bene.

Sappiamo quanto ci si debba nascondere, adattare, contenere per non disturbare.
Sappiamo quanto pesa la libertà, quando sei femmina.

E siamo stanche. E incazzate.

Siamo stanche di dover insegnare alle nostre figlie a stare attente.
A non fidarsi troppo. A non camminare da sole. A sorridere senza sembrare disponibili.

Siamo stanche di doverle preparare al mondo,
invece di preparare il mondo ad accoglierle.

E allora no, non è lei che deve cambiare.
Non è la sua sensibilità a dover essere corretta.

È il mondo che deve imparare a non ferire ciò che è vivo, aperto, vero.

E io voglio restare accanto a lei,
non per proteggerla da ciò che prova,
ma per farle spazio.

Perché non c’è debolezza nell’essere vulnerabili.

E c’è un diritto:
quello di essere al sicuro senza dover diventare qualcun altro.

“Magari me ne vado, ma tutta di traverso e tutta intera”

L'io in realtà è un noi. All'interno di questa

L'io in realtà è un noi.

All'interno di questa nostra tana intima, nel profondo del bosco, convivono tante parti: alcune luminose, esposte, coltivate perché viste e accolte dall’ambiente in cui siamo cresciuti e altre, invece, sono rimaste in ombra, nascoste nel buio della tana perché rifiutate, perché non coincidevano con l’immagine di noi che abbiamo dovuto costruire.

E proprio perché ogni parte in esilio chiede in qualsiasi modo il ritorno a casa, sono proprio loro, spesso, a determinare chi ci attrae.

A volte ci affascina qualcuno che incarna esattamente quello che abbiamo messo da parte. Ci attira la sua libertà se siamo cresciuti nel controllo, il suo calore se abbiamo imparato a trattenere, la sua leggerezza se siamo sempre stati responsabili, la sua audacia se siamo cresciuti nella paura di sbagliare, la sua spensieratezza se siamo cresciuti sentendo il peso delle responsabilità.
È come se l’altro ci mostrasse un frammento di noi dimenticato, un eco di ciò che avremmo potuto essere e non é stato.

A volte l’altro ci attrae perché ci ricorda.
Ci ricorda gli sguardi che abbiamo cercato, le voci che ci hanno cullato o ferito, le mani che ci hanno accarezzato o lasciato soli.
Nell’incontro ci illudiamo di sanare quelle antiche ferite, di ritornare in quel paradiso perduto che rimane un’ illusione perché spesso scegliamo proprio chi- inconsciamente- ripete e non ripara.

Oggi è l'equinozio di primavera, luce e buio sono in equilibrio secondo un incastro naturale perfetto e magico che non può essere diversamente da ciò che è.

Anche qui, nella mia tana nel bosco tra buio e luce, il mio cuore sta tornando a casa.

Ci sono momenti in cui il timore di sbagliare dive

Ci sono momenti in cui il timore di sbagliare diventa così grande da impedire di muoverci. Perché tentare, se c’è il rischio di cadere? Perché mettersi in gioco, se non c’è la certezza di riuscire?

Eppure, ciò che chiamiamo fallimento è spesso un concetto soggettivo. Quello che per qualcuno è un disastro, per un altro potrebbe non avere alcun peso. Questo accade perché la paura del fallimento non nasce nel presente: ha radici profonde nelle nostre esperienze, negli sguardi ricevuti, nelle aspettative che ci hanno attraversato.

A volte il problema non è la caduta in sé, ma quello che pensiamo significhi cadere. Se il nostro valore dipende dal successo, ogni errore diventa una minaccia all’immagine che abbiamo di noi stessi. Se ci è stato insegnato che solo chi è impeccabile merita amore e riconoscimento, ogni inciampo diventa un verdetto sulla nostra esistenza.

E così rimaniamo fermi. Immobili di fronte a una paura che cresce, che ci impedisce di chiederci:
Ma cosa accadrebbe davvero se non andasse come speriamo?
E se la nostra idea di fallimento fosse solo una proiezione, e non un destino? A chi stiamo cercando di dimostrare qualcosa?

E poi c’è la domanda più grande: la direzione in cui stiamo andando è davvero nostra?
Quante volte lottiamo per qualcosa che nemmeno vogliamo, solo perché mollare ci farebbe sentire in difetto? Quante volte restiamo aggrappati a progetti, relazioni, percorsi che non ci appartengono, solo perché ci hanno insegnato che smettere è sinonimo di perdere?

Ma se il fallimento fosse un’illusione?
Se, invece di temerlo, provassimo a vederlo come un passaggio, un segnale, un’occasione per riscrivere la nostra strada?

✨ Perché cadere, a volte, è solo trovare.

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